di Salvo Barbagallo
Probabilmente è “corretto” che certi eventi cadano nell’indifferenza generale dal momento che l’esperienza ha insegnato che non sono utili alle collettività, ma che (forse) seguono interessi e logiche “riservate” e che alle stesse collettività risultati concreti non giungono. Ci riferiamo alla conferenza del “Med Dialogues 2019” conclusasi a Roma nei giorni scorsi che aveva l’obiettivo di “andare al di là del caos” nell’area del Mediterraneo. Un appuntamento che si ripete ormai puntualmente da anni, un appuntamento che ha offerto l’occasione a protagonisti dei Paesi Mediterranei di trovare “soluzioni” ai problemi che affliggono i territori rivieraschi, ma che, a conti fatti, non ha portato a nulla, se non dare a chi ha partecipato l’opportunità di una breve vacanza su suolo italiano.
Oltre 50 tra capi di Stato, ministri e alti funzionari delle principali organizzazioni internazionali hanno preso parte alle oltre 40 sessioni ospitate per tre giorni al Parco dei Principi, fra i tanti hanno fatto spicco il ministro di Stato saudita per gli Affari Esteri, Adel al Jubeir, il capo della diplomazia della Federazione russa, Sergej Lavrov, il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, i ministri degli Esteri di Bahrein e Libano, rispettivamente Khalid al Khalifa e Gebran Bassil, il ministro delegato per gli Affari esteri del Marocco, Mohcine Jazouli, il ministro degli Esteri della Turchia, Mevlut Cavusoglu, il capo della diplomazia dell’Egitto, Sameh Shoukry, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pederseon, il ministro degli Esteri di Israele, Israel Katz, e l’omologo palestinese, Riyad al Malki, l’inviato delle Nazioni Unite in Libano, Jan Kubis, il ministro degli Esteri del Qatar, Mohamed al Thani, il presidente del Chad, Idriss Deby Itno, il ministro egiziano Tarek el Molla, il rappresentante speciale del governo cinese per gli affari europei Wu Hongbo. Presenze italiane all’altezza del premier Giuseppe Conte, del ministro degli Esteri Luigi di Maio, del generale Stefano Del Col, comandante della missione Unifil in Libano, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi; il Commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, il sottosegretario Manlio Di Stefano.
Personaggi più che autorevoli, dunque, a questo “Med Dialogues 2019”, personaggi in grado di che determinare una effettiva svolta nell’area del Mediterraneo solo se esistesse una reale possibilità ( o volontà?) di andare “oltre” ai “dialoghi” e affrontare sul piano concreto le mille e mille problematiche che pesano su questa parte del mondo attuale.
Fra i tanti argomenti “trattati” non poteva mancare quello della “Cooperazione Internazionale” in merito ai cosiddetti flussi migratori. E certamente il Di Maio-Pensiero sui flussi migratori è illuminante: siamo di fronte a un fenomeno strutturale e di lungo periodo, fortemente connesso con il tema dello sviluppo – e del mancato sviluppo – di molti Paesi. Agire, quindi, sulle cause profonde delle migrazioni è l’unica soluzione strutturale per affrontare questa sfida e su questo la cooperazione italiana rappresenta uno strumento indispensabile. E Di Maio presenta la “consistenza” della cooperazione italiana: l’Italia ha investito 280 milioni nel Mediterraneo e 112 milioni nel Medio Oriente, a cui si aggiungono i fondi impiegati nei Balcani e in Africa. Non c’è nulla da obiettare… così come nell’apprendere che oltre ai fondi per l’emergenza umanitaria, la cooperazione italiana è impegnata in tutta una serie di altre iniziative che mirano a sostenere la strada di quei Paesi verso lo sviluppo economico, intervenendo su aspetti come l’educazione o l’innovazione tecnologica. Nessuna citazione, però, riguardo alle armi che l’industria bellica nostrana vende proprio a quei Paesi verso i quali c’è l’impegno umanitario.
Sulla crisi che coinvolge molti Paesi del Mediterraneo riteniamo quanto mai appropriata la risposta che il capo della diplomazia della Federazione russa, Sergej Lavrov, ha dato al giornalista Chartroux: “La comunità internazionale deve capire che cosa vuole. Una democrazia come quella in Libia? Per quanto fosse stato autoritario il regime di Gheddafi la stabilità del Paese era indubbia. L’Europa non aveva alcun problema derivante dalla Libia. Lo stesso discorso riguarda il Libano, l’Iran, l’Iraq. I risultati sono sempre gli stessi: distruzione di uno Stato, esplosione del terrorismo, flussi migratori inarrestabili. Abbiamo visto uno scenario simile anche in Ucraina, dove ha avuto luogo un colpo di stato, appoggiato dai nostri colleghi americani. Al posto della stabilità otteniamo invece caos, chiamato “democrazia”.
Parole che non hanno bisogno di alcun commento.